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14 aprile 2011

Josh T. Pearson - The Last Of The Country Gentlemen











Pearson è un texano ormai non più giovane che un dozzina d'anni fa trovò il modo di farsi notare per The Texas-Jerusalem Crossroads, un album realizzato con il gruppo dei Lift To Experience. Ebbe una buona accoglienza, scaldò il cuore del sempre generoso John Peel ma fu un primo e unico atto; perché Pearson sentì troppo forte la responsabilità di quella specie di successo, ebbe paura di essere finito in un meccanismo stritolante e si tirò da parte. "Avevo ancora bisogno di crescere e diventare un uomo - e non volevo farlo in pubblico".

Il gruppo si sciolse senza altri messaggi e Pearson tornò in Texas accettando i lavori più umili, faticando a sbarcare il lunario. Ma non mise radici, si inquietò, si trasferì prima a Berlino e poi a Parigi sempre inseguendo sogni di musica, con sporadiche esibizioni dal vivo e progetti di album scritti sulla sabbia. A un certo punto la Mute lo adocchiò e gli propose un ritorno come solista, promettendo che lo avrebbe lasciato libero: solo lui e la sua chitarra da pochi dollari, e qualche minimo colore d'archi, senza gli intorcolati arabeschi e il "widescreen wall of sound" che aveva marchiato l'esperienza Lift To Experience. Pearson riluttante disse sì, scommettendo su un album che fosse "completamente onesto, assolutamente sincero e disperato", come intendeva; e in due notti di lavoro a Berlino, ecco queste sette canzoni.

Vale più la storia dell'album, se mi credete, e massimo rispetto per l'onestà sincerità disperazione di questo disarmante umano mentre lo stesso non mi sento di spendere per chi lo ha fatto diventare "il musicista del momento" - siamo sempre nello stucchevole campo del "famolo strano" e "il mio disco è più fuori del tuo". Confesso di avere impiegato un po' a superare la traccia numero 2, l'interminabile Sweetheart I Ain't Your Christ, perché Pearson non si fa problemi di misura e comunicazione; cantare per lui è sfogo, terapia, lo ha confessato senza problemi, "è qualcosa di catartico". Noi però siamo dall'altra parte dei suoi abbandoni, dei suoi slanci mistici, ed è facile che soffriamo le lungaggini (tre pezzi oltre i dieci minuti), il passo lento e soffocante, la monotonia per cui tutti i brani paiono variazioni di una medesima idea. Pearson canta con estatici melismi, mentre la chitarra arpeggia come a seguire la voce su una pista parallela. Non sono canzoni le sue, sono salmi, un personale gospel dai toni più accorati che esaltati; e le parole sgorgano come improvvisate, c'è questa idea di cerimonia spontanea che dal vivo potrebbe essere anche più suggestiva.

Ne ho ascoltata troppa di musica per innamorami di Josh T. Pearson e partecipare all'entusiasmo collettivo. Credo che piaccia la sua "purezza", in odio a tanti artifici della nostra epoca; ma la via dell'inferno è lastricata di purezze, se ben ho capito come vanno le cose. Pearson comunque non sembra puntare all'inferno, né al Paradiso, né a qualunque altra meta. È un tipo saggio. "Volevo fare un album che si bastasse, che stesse bene com'è anche se per dieci anni non ne incidessi più un altro”.

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